Il documento informatico è uno degli elementi che sempre più di frequente entra nei processi penali e nei processi civili.
Le prove sono lo strumento con il quale il Giudice penale basa il proprio convincimento al fine di accertare la fondatezza o l’infondatezza della pretesa punitiva dello Stato – che viene rappresentato dalla figura del Pubblico Ministero – nei confronti dell’imputato.
Nel processo penale il procedimento di primo grado è suddiviso in tre fasi: le indagini preliminari, l’udienza preliminare e il dibattimento. La fase del dibattimento, in cui vi partecipano l’Organo Giudicante, il Pubblico Ministero e l’imputato assistito dal proprio difensore, è fondato sui principi del contraddittorio tra le parti, dell’oralità e dell’immediatezza, ed è il luogo principe in cui vengono formate le prove.
Indice degli argomenti
Secondo la classificazione tradizionale, il procedimento probatorio viene composto nelle tre fasi di:
Nel nostro sistema penale il legislatore ammette l’ammissione sia di prove tipiche che atipiche. Le prime sono quelle puntualmente disciplinate dalla legge e che rispettano i requisiti posti dall’art. 190 cp, secondo il quale le prove non devono essere manifestamente irrilevanti, superflue e vietate.
L’ammissione delle prove atipiche, invece, oltre che rispondere ai tre requisiti sopra detti, può essere assunta dal Giudice solo se risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona, così come disciplinato dall’art. 189 del codice di procedura penale.
Vediamo brevemente i mezzi di prova tipici.
Il documento informatico rientra tra il novero delle prove digitali, ambito in continua evoluzione e diffusione che copre un ruolo fondamentale nel panorama processuale.
Si pensi ad esempio ad una chat di WhatsApp, applicazione di messaggistica istantanea utilizzata da milioni di utenti, oppure alle e-mail di lavoro che vengono scambiamo quotidianamente. Che natura hanno questi messaggi? Come possono entrare nel processo?
Una recente sentenza della Corte di Cassazione, V sez. penale n. 1822/2018, con riferimento ai messaggi WahtsApp e SMS rivenuti in un telefono cellulare, gli attribuisce natura documentale:
I dati informatici acquisiti dalla memoria del telefono in uso all’indagato (sms, messaggi whatsApp, messaggi di posta elettronica “scaricati” e/o conservati nella memoria dell’apparecchio cellulare) hanno natura di documenti ai sensi dell’articolo 234 c.p.p.. La relativa attività acquisitiva non soggiace né alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche.
Non è applicabile la disciplina dettata dall’articolo 254 c.p.p., con riferimento a messaggi WhatsApp e SMS rinvenuti in un telefono cellulare sottoposto a sequestro, in quanto questi testi non rientrano nel concetto di “corrispondenza”, la cui nozione implica un’attività’ di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito. Non è configurabile neppure un’attività di intercettazione, che postula, per sua natura, la captazione di un flusso di comunicazione in corso, mentre nel caso di specie ci si è limitati ad acquisire ex post il dato, conservato in memoria, che quei flussi documenta.
Non si dimentichi, a tale proposito, la sentenza della Cassazione n. 49016/2017 che detta il principio secondo il quale, i messaggi fanno piena prova se vi è stata non solo l’acquisizione di quel determinato messaggio ritenuto rilevante dalla parte, ma se vi è stata l’acquisizione completa del dispositivo su cui quel messaggio si trova. Ciò al fine di garantire paternità e completezza.
Ed è proprio qui che bisogna tenere presente che, al contrario di quello che si può pensare, la prova digitale è altamente fragile poiché volatile e modificabile. Pertanto, al fine di garantirne l’utilizzabilità processuale, le prove digitali devono essere trattate “con i guanti di velluto”, avvalendosi di professionisti specializzati e con adeguate competenze e strumentazione tecnica tipica di un laboratorio di informatica forense.
Ed è in questi casi che entra in gioco il consulente tecnico di informatica forense, che ha il compito di rendere la prova digitale “processualmente” valida. Il CTP di informatica forense è il solo che può garantire l’adozione di quei comportamenti idonei alla cristallizzazione della prova digitale (presente su qualsiasi supporto digitale), partendo da una solida conoscenza del dato digitale e di come deve essere trattato per fini processuali.